Workshop e ingresso in latenza: difficoltà e problemi ad entrare in latenza

di Deliana Bertani

Inizieremo a parlare di quelle particolari situazioni formative parallele e integrative rispetto a quelle scolastiche e a quelle terapeutiche  in cui abbiamo a che fare con bambini in difficoltà, con problemi di apprendimento, di comportamento, di autostima, spesso  non sufficientemente seguiti e sostenuti dalla famiglia.

Innanzitutto accenneremo (il discorso verrà ripreso negli incontri successivi) alle competenze che l’operatore educativo deve mettere in campo nel lavoro all’interno dei workshop: si tratta di competenze non diverse da quelle dell’insegnante, ma più accentuate in alcune aree e meno in altre.

La prima è una competenza di ordine affettivo, cioè la capacità di comprendere i fenomeni affettivi, la capacità di vederli e di riconoscerli. Essere in grado di riconoscere nella condotta dei ragazzi del proprio gruppo l’emergenza di richieste di aiuto, le ansie di smarrimento manifestate in comportamenti aggressivi, provocatori, di chiusura, di apatia o di incapacità, può costituire un punto di forza per impostare o correggere il proprio lavoro o per rassicurarsi sul significato di eventi specifici. Sapere cosa avviene nelle situazioni di apprendimento, conoscere le principali dinamiche relazionali, saper dare un nome ai propri sentimenti può consentire di orientarsi in modo adeguato, di comprendere ciò che accade senza provare troppa ansia.

Parleremo oggi di una età in cui al bambino viene richiesto in modo massiccio il passaggio dall’illusione al piano di realtà, dall’onnipotenza ad un’immagine realistica di sé. I bambini più fragili e più disturbati sul piano dei processi autonomi di apprendimento avranno crisi di paura e di controdipendenza, di conseguenza risulta evidente: che le crisi di separazione si possono verificare anche quando si giunge in scuola elementare; che imparare significa anche abbandonare la propria illusione di onnipotenza; che ciò può fare paura e che imparare implica un confronto con il nuovo e l’abbandono del noto, del proprio passato equilibrio e di un mondo in cui prevale l’affettività per uno in cui deve prevalere l’operatività.

La seconda  competenza deriva dal fatto che siamo in una situazione formativa e quindi abbiamo obbiettivi di apprendimento in senso stretto che, data l’età di cui ci occupiamo oggi, sono legati al leggere, allo scrivere e al far di conto.

La terza competenza deriva dal fatto che abbiamo a che fare con bambini che hanno delle difficoltà e l’approccio a tali difficoltà comporta oggi un concorso di scienze, di professioni, di tradizioni istituzionali che comprende la medicina, la psicologia, la pedagogia, la sociologia, l’antropologia, la linguistica, l’epidemiologia etc.

La difficoltà diventa allora un’area di confine che può produrre incontro e contaminazione oppure chiusura e ripiegamento su se stessi. La competenza, in questo senso, è il coraggio di affrontare il rischio della contaminazione sapendo qual è il proprio ruolo, avendo chiarezza personale e istituzionale circa i propri compiti: nessuno di voi è una madre onnipotente, ma è un professionista dell’operare educativo che è in grado di mettere le proprie competenze in rete con quelle degli altri professionisti che lavorano con i bambini.

Cerchiamo di approfondire insieme il concetto di difficoltà (dis/facultas = che non ha facoltà). Il concetto di facoltà non è un concetto astorico; consideriamo, per es., la manualità fine in tre periodi storici:

1) prima dell’avvento della scuola dell’obbligo la manualità fine  aveva  a che fare con i pregrafismi solo in modo molto marginale, ma non era comunque un problema;

2) dopo l’obbligo scolastico, ma prima che le scuole materne avessero fini educativi, cioè prima che ai bambini fossero impartiti i pre – apprendimenti, la  conquista  della manualità fine attraverso l’esercizio delle aste era un primo obbiettivo e comunque la scuola dava per scontato che il bambino non possedesse questa facoltà, per lo meno in relazione agli apprendimenti scolastici;

3) oggi, allorché i pre – apprendimenti sono all’ordine del giorno, si considera in difficoltà un bambino che non possiede i pregrafismi.

Si può così porre tutto il problema dei pre – apprendimenti sul piano storico, in connessione con le mutanti esigenze che ogni società ha: ad es. di avere o no dei soggetti in grado di leggere, di usare il computer, di scrivere, di capire determinati linguaggi; di prevedere o no nei propri programmi determinate facoltà come utili e necessarie al proprio sviluppo o alla propria sopravvivenza (ad es. il concetto di spazio e di movimento, la capacità di muoversi o di rappresentarsi il movimento e lo spazio nelle civiltà contadine e in quelle urbane attuali).

Ogni fine educativo e formativo, quindi, può prevedere o meno che il bambino si impossessi di determinate facoltà.

Anche il concetto di difficoltà cambia, per cui il mancato possesso di una cosa diventa o no un problema a seconda del tipo di società in cui il bambino vive: le difficoltà di cui parleremo saranno quindi, in ultima istanza, collegate ai bisogni della nostra società urbana, letterata, terziarizzata, a crescita zero etc.: non padroneggiare la lingua burocratico curiale è oggi un handicap. Facoltà e difficoltà odierne vanno viste, quindi, anche come espressioni di bisogni necessari alla nostra società.

Vi propongo di affrontare la difficoltà da un punto di vista psicologico, secondo quattro angolature (o assi):

  1. Angolatura sintomatica: in base alla quale i sintomi diventano segnali che vanno nella direzione della normalità o della patologia. Il problema principale è capire, se si opta per questa angolatura, se il sintomo è rappresentativo di una condotta patologica o se ha un ruolo organizzatore in un momento particolare della vita del bambino (in un momento di passaggio da un modello organizzativo interno ad uno nuovo).
  2. Angolatura strutturale: in base alla quale il punto di riferimento non è tanto il sintomo, quanto la conformazione dinamica della struttura psichica del bambino. Se si fa questa opzione, il problema principale è il seguente: la struttura mentale che in base alla mia osservazione vado individuando ha in sé elementi strutturali con un tasso di stabilità tale da potersi dire effettivamente cristallizzata in una condotta decisamente patologica, oppure le influenze interne (fasi dello sviluppo) ed esterne (l’ambiente, i vari contesti di vita del bambino) sono tali da rendere molto poco strutturate le basi patologiche della condotta?
  3. Angolatura genetica: in base alla quale la mente di quel bambino, intesa in termini neuropsicologici, viene osservata e parametrata alle linee di sviluppo normale (standardizzato) della mente. Il problema principale, se si opta in questo senso, è se ciò che vado individuando possa essere inquadrato come disarmonia evolutiva dovuta a cause endogene, oppure si tratti di condotte che sono solo risposte normali a condotte esterne quantomeno poco salubri (provenienti ad esempio dalla famiglia, dalla scuola materna, dalla scuola elementare); si tratta, cioè, di un blocco cognitivo che esprime un disagio affettivo o che dipende da effettive insufficienze?
  4. Angolatura ambientale: in base alla quale il comportamento del bambino viene visto in rapporto con l’ambiente familiare, scolastico, amicale etc. Il problema principale, se si opta per questo asse, è: fino a che punto un inquadramento del comportamento infantile in un ambito contestuale, più o meno sano, più o meno patologico è sufficiente ad inquadrare le problematiche interne del bambino?

Se consideriamo, per esempio, la dislessia:

– secondo l’asse sintomatico essa appare come una lesione neurofisiologica;

– secondo l’asse strutturale come un’inibizione epistemofilica;

– secondo l’asse genetico come il risultato di una disarmonia dello sviluppo di una funzione strumentale;

– secondo l’asse ambientale come un’inadeguatezza pedagogica (l’insegnante non avrebbe capito con quale strategia individuale quel bambino sta apprendendo a leggere).

Dov’è la verità? la verità può essere cercata provando a coniugare tutti e 4 gli assi, partendo dalla consapevolezza che, specie in età evolutiva, un’opzione adialettica per l’uno o per l’altro asse è destinata ad una approssimazione che, in molti casi, diventa intollerabile e foriera di errori interpretativi.

 Vediamo ora i 4 assi dal punto di vista pedagogico/educativo:

Asse sintomatico: vedo l’albero, ma non la foresta; metto in atto una didattica correttiva; il problema principale è la scomparsa del sintomo.

Asse strutturale: vedo l’affettività, ma non gli apprendimenti; ricorro ad una pedagogia degli affetti; il problema principale è il rapporto con il bambino.

Asse genetico: vedo gli apprendimenti, ma non gli affetti; ricorro ad una pedagogia cognitivistica; il problema riguarda lo sviluppo intellettivo e l’acquisizione di competenze.

Asse ambientale: vedo la foresta ma non l’albero; metto in atto una pedagogia sociologistica e ideologica; la preoccupazione è per le cause esterne.

Ritengo che in una situazione come quella nella quale operate ci sia bisogno del massimo di integrazione possibile fra questi 4 assi

Ma chi è questo bambino che vi trovate davanti  tutti i giorni, indipendentemente dal vostro umore, dal vostro stato di benessere o malessere, dai vostri problemi personali etc.? E’ il bambino che sta entrando in latenza.

Riprendiamo ora il discorso che si faceva prima circa l’opportunità di storicizzare il problema: ci sono, li vediamo, molti indizi che ci fanno dire che le modificazioni culturali hanno cambiato i termini del periodo di latenza, che oggi risulta più contratta. Da un lato vi è un’infanzia complessa e più tumultuosa a causa delle nuove consapevolezze emotive (dovute al modificarsi del rapporto con gli adulti), dall’altro lato la preadolescenza vede indebolito il potere familiare, mentre la tv stimola e modula, almeno in buona parte, le emozioni preadolescenziali.

In passato è stata evidenziata la coincidenza fra inizio della scuola e inizio dell’età di latenza, mentre oggi, probabilmente, vanno fatte alcune considerazioni preliminari:  la seconda infanzia è diversa; è stato rivendicato uno spazio maggiore per i bisogni e i diritti dell’infanzia (anche se ancora spesso tutt’altro che acquisiti) anche se, d’altra parte, lo sviluppo cognitivo richiede, per una progressiva autonomia del pensiero dalla sfera delle rappresentazioni affettive, una sorta di decantazione della dimensione pulsionale – affettiva.

Questo significa che il passaggio dalla scuola materna alla scuola elementare è il  problema centrale da superare per riuscire a capire, stare con, “scolarizzare” il bambino di cui stiamo parlando. Questo è un problema che 30 anni fa non c’era, ma che è attuale nella nostra realtà locale dove la frequenza alla scuola materna è pressoché generalizzata; questo tema ci ripropone il discorso della frontiera, dei timori di possibili contaminazioni e della conseguente tentazione di rinchiudersi in sé.

 Abbiamo prima parlato di necessità di “decantazione” che dovrebbe avvenire per tempo, anche se non a spese del gioco e della creatività; tale decantazione non avviene solo con l’uso della didattica dei processi cognitivi (che pure ha un ruolo importante), ma soprattutto attraverso la regolazione dei comportamenti interpersonali, l’esercizio per il controllo delle energie pulsionali, il rafforzamento del Super – io e lo sviluppo del senso d’identità in rapporto  con la realtà psico – sociale.

La decantazione può essere un modo per definire il periodo di passaggio dalla scuola materna alla scuola elementare e per connotare le modalità con cui affrontare i problemi legati a questo passaggio, superando la conflittualità fra i due ordini di scuole, lo scarico reciproco di colpe, valorizzando le possibilità di riorganizzazione della personalità del bambino che lo stacco può favorire.

Lo spazio che un workshop può avere in questa “decantazione”, in questo passaggio da una situazione dove prevale l’affettività ad una dove regna l’operatività, è grande. In un gruppo parallelo e integrante rispetto a quello scolastico l’operatività ci deve essere e può assumere connotazioni molto più varie, attraenti, meno spaventose, più interessanti e intriganti per il bambino, perciò il passaggio può essere accompagnato e favorito.

La scuola elementare e la scuola materna hanno un potere enorme di formare lo sviluppo globale della personalità. Ciò è vero ancor di più oggi, in un periodo in cui la famiglia ha subito profonde modificazioni: la maggior parte delle donne lavora fuori casa, le trasformazioni sociali e culturali si susseguono a ritmi vertiginosi, la certezza delle regole è senz’altro venuta meno e, non da ultimo, la tv ha invaso la vita dei bambini togliendo spazio alla famiglia e, soprattutto, presenta una serie di immagini problematiche e talvolta impietose del mondo degli adulti, con una sorta di lente di ingrandimento sulle loro passioni, sui loro difetti e sui loro valori.

Una difficoltà da affrontare è quindi quella della continuità o, meglio, dell’utilizzo in senso evolutivo della discontinuità per favorire, potremmo dire, il passaggio dal principio del piacere al principio della realtà.

In un certo senso si tratta di sfruttare la “nuova” situazione per chiedere al bambino cose che precedentemente non era in grado di dare o non era disposto a dare, difendendo contemporaneamente certi privilegi dell’infanzia, soprattutto quelli connessi al piacere e ai vantaggi di dipendere dall’adulto.

 E’ chiaro che queste richieste non debbono improvvisamente sovraccaricare le capacità di adattamento e di trasformazione del bambino, altrimenti la discontinuità si può trasformare in un agente di stress, di disorganizzazione e talora di regressione.

La delicatezza del momento di passaggio è grande e l’impatto con la nuova realtà è importante per l’atteggiamento del bambino, non solo nei confronti della scuola, ma anche del mondo simbolico e della realtà sociale.

In questo momento particolare, la qualità dell’ambiente relazionale ed educativo che ogni agenzia educativa riesce a dare è importantissimo.

A voi arrivano bambini per i quali questo passaggio è ancora più difficoltoso, per i quali la qualità dell’ambiente è fondamentale proprio perché oltre ad educare e ad insegnare, nei gruppi si deve anche riparare.

Nei gruppi diventa estremamente importante programmare la gestione di questo passaggio, mettendo a punto delle strategie e degli obbiettivi; inserirsi nel “modo in cui si mandano i bambini alla scuola elementare” (spesso grossa preoccupazione delle educatrici di scuola materna e delle famiglie), così come pure nel “modo in cui si accolgono i bambini alla scuola elementare”; mettere in piedi un gioco che tenga presente, da un lato, l’accusa di soffocamento della creatività e della spontaneità e, dall’altro, quella di non saper neanche star seduti.

Questo “gioco” sarà la grossa sfida che la riforma, prevedendo l’anticipo della scolarizzazione a 5 anni, dovrà cogliere e affrontare.

I momenti di passaggio costituiscono dei punti critici durante i quali il soggetto affronta le maggiori difficoltà di adattamento con la più elevata probabilità di insuccesso.

Quello di cui stiamo parlando è un grosso passaggio: il primo giorno di scuola  per il bambino non è soltanto una nuova esperienza simile a tante altre, ma esso porta una nuova dimensione nella sua vita, che non sarà mai più come prima.

L’apprendimento scolastico richiede una maggiore disciplina nel funzionamento intellettuale, le aspettative dell’adulto circa l’assunzione da parte del bambino di nuove responsabilità e di ruoli più differenziati nel comportamento sociale influiscono sulla organizzazione e sulla differenziazione dell’Io del bambino, c’è bisogno, inoltre, di una maggiore  autonomia; la scuola elementare è proprio diversa dalla sua famiglia, dalla sua casa perché i nuovi rapporti hanno connotazioni che si basano sull’operatività piuttosto che sull’affettività.

L’incontro con l’insegnante e quindi con il sistema  educativo è già avvenuto, il contatto con un mondo più ampio di quello di casa sua c’è già stato, ora però ci sono nuovi obblighi, nuovi valori su cui essere valutati, c’è l’accesso ai segni scritti, alla lettura, ai numeri e al mondo degli adulti.

L’ingresso nella scuola elementare rappresenta per il bambino, e non solo per lui, una sorta di investitura, di iniziazione che è di grande valore simbolico e tutto questo avviene in latenza, o meglio, se vogliamo riprendere il discorso che si faceva prima, in quel periodo in cui deve avvenire la decantazione della dimensione pulsionale affettiva (la decantazione non la scomparsa !).

A questo punto faremo alcune considerazioni sulle difficoltà legate all’apprendimento in quest’epoca della vita e fisseremo l’attenzione sull’intreccio che l’apprendimento ha con l’insegnamento.

Insegnare e apprendere sono due azioni che in questo periodo assumono un significato istituzionalizzato, ufficialmente cadenzato e socialmente riconosciuto.

Gli insegnanti elementari trovano terreni già dissodati, situazioni più strutturate e soprattutto possono lavorare con meno assilli, perché il loro ruolo è più definito.

Nella scuola ci sono i programmi, c’è qualcosa di condiviso, deliberato e approvato; non c’è scritto, però, cosa sottolineare, come interpretare, come modulare  né come il bambino riceverà quello che gli viene porto e nemmeno ci sono suggerimenti sulle eventuali modifiche da apportare. Questo per dire che, così come ci sono difficoltà ad apprendere, ci sono anche difficoltà ad insegnare ed entrambe si riflettono sulla condizione che permette la trasformazione dei dati percepiti in fatti appresi, strutturati e personali.

Quante volte avete sentito dire “quel bambino  dimentica il giorno dopo quello che ha imparato”, oppure, “ricorda solo quello che vuole!”.

Potete riformulare ciò che avete ascoltato in questo modo: “Perché quello che è stato detto e che il bambino ha ascoltato, non è diventato suo patrimonio?”.

Vediamo ora l’intreccio che l’apprendimento ha con l’insegnamento (il bambino, cioè,  e l’insegnante), l’aspetto relazionale dell’apprendimento, quello per il quale è necessario, come si diceva all’inizio, capire gli affetti.

Apprendere

Esistono molti ragazzi che apprendono con difficoltà perché non sanno come si apprende o perché non controllano i meccanismi dell’apprendimento (problemi cognitivi, asse genetico – sintomatico). Esistono diversi ragazzi che hanno paura di apprendere perché vivono l’apprendimento o come colpa o come sconfitta o come  pericolo (asse strutturale – ambientale, problemi emotivi, relazionali, ambientali). Molti ragazzi presentano ambedue i problemi: non sanno come si apprende e hanno paura di apprendere. I due problemi possono dipendere l’uno dall’altro: chi non sa, non è capace, finisce per sviluppare un atteggiamento di panico verso gli oggetti, i luoghi dell’apprendimento; chi prova paura verso l’intelligenza, verso la conoscenza e la scoperta, sviluppa spesso delle tecniche molto raffinate per apprendere come non si apprende o come si fa finta di apprendere.

I presupposti affinché un qualunque apprendimento diventi produttivo sono i seguenti: uno scopo, una tecnica, un piacere, una rappresentazione. Perché si impara? Si impara a leggere e a scrivere per precisare e per trasmettere, a distanza di tempo,  di spazio e di conoscenza, i pensieri propri ed altrui; si impara uno sport o la matematica per sviluppare un dominio e per stabilire e moltiplicare le relazioni fra sé e il mondo; si imparano ad usare i propri apprendimenti e a legarli ai propri interessi e alle richieste della realtà se si costruisce dentro la propria mente uno scenario e un repertorio di tutti gli apprendimenti, se questi ultimi vengono messi in relazione fra di loro e se si riescono a cogliere tutti i loro mutamenti. Perché molti ragazzi non usano, e quindi non accumulano, i loro apprendimenti? Perché molti ragazzi soffrono nei luoghi  dell’apprendimento e affrontano con dolore gli oggetti di apprendimento?

Queste sono difficoltà ad entrare in latenza .

L’apprendimento significa pensare a cose nuove e per potere fare questo è necessario mettere in discussione, e in parte cancellare, le cose vecchie e riconoscere quelle nuove come tali. La possibilità e la stabilità dell’apprendimento è in parte legata al senso di stabilità di chi può apprendere: chi cerca di apprendere può identificarsi e riconoscersi in oggetti nuovi e può perdere oggetti e spazi conosciuti solo se mantiene coerente lo spazio dell’apprendimento, cioè se stesso. Per conoscere è necessario sentirsi conosciuti; per conoscere cose nuove è necessario potersi muovere in uno spazio dove cambiamento e familiarità coincidono, dove, cioè, tutto si può cambiare senza che niente venga perduto. Il luogo dell’apprendimento e la funzione dell’apprendimento sono gli spazi e le azioni in cui diventano pensabili le relazioni fra gli oggetti e fra sé e il mondo; perché ci possa essere una relazione è necessario che ci sia una storia in cui nuovo e vecchio si confrontino ed entrino in rapporto. Apprendere significa, quindi, uscire da se stessi e dal proprio egocentrismo per essere se stessi all’interno del gruppo a cui si appartiene; si tratta di un processo che conduce alle acquisizioni di competenze o di conoscenze nuove che permettono, integrandosi, di rispondere in modo sempre più adeguato alle richieste ambientali.

Insegnare

Apprendere deriva dal latino ab – prehendo = prendere da, afferrare, impadronirsi: è quel processo di “integrazione” del nuovo nel già esistente che porta ad una trasformazione dinamica della personalità sostenuta dalla tensione verso un obbiettivo, cioè da una motivazione più o meno conscia, ed è un processo che si estrinseca in una dimensione relazionale: prendere da.

Per apprendere, per imparare è necessario quindi che ci sia qualcuno che insegni, dove insegnare diventa un fatto complicato che va evidentemente oltre la comunicazione di nozioni, ma che implica, infatti, anche un atteggiamento che schematicamente possiamo riassumere in 3 azioni: ascoltare, domandare, osservare.

Ascoltare: essere pronti a percorrere i sentieri che l’altro sta elaborando e percorrendo.

Domandare: far emergere e dar corpo alle paure, alle conquiste e alle scoperte dell’altro usando se stessi.

Osservare: “leggere” i comportamenti, decifrare il linguaggio del corpo e del movimento, i sentimenti che aleggiano nella ” scena” che sta avvenendo in classe.

Insegnare, in questo senso, significa entrare nel vivo della strutturazione dell’identità emotiva, intellettiva e corporea del bambino. Perché ?

Insegnare significa  “segnare di sé” mettere dei propri segni nell’altro, dei propri  “pezzi”, cioè quelli della propria storia, della propria esperienza consapevole e inconsapevole, ma comunque complessiva. Secondo questa ottica insegnare significa avere il coraggio di ripercorrere le tappe della propria crescita per avere un’idea di quello che è il seme, il segnale, il pezzo che sto mettendo dentro all’altro, per avere un’idea dell’occhio e dell’orecchio con il quale sto ascoltando, domandando e osservando il bambino che ho davanti, le sue trasformazioni, le trasformazioni delle dinamiche fra me e lui, le mie trasformazioni.

Nell’incontro fra chi impara e chi insegna in un aula scolastica, ma anche in famiglia, nel nido, nelle scuole materne, in una seduta riabilitativa, in un gruppo  per l’apprendimento, in un GET, c’è un flusso di sentimenti ed emozioni che comprende anche l’ambiguità, la sfiducia,  l’aggressività, il bisogno  di controllo, la paura, la rabbia, l’amore e l’odio .

Il fare, l’insegnare e l’apprendere che passano attraverso questo rapporto sono determinati e fortemente condizionati dalla coloritura di questi sentimenti. L’affrontare questa coloritura cercando di trincerarsi dietro il proprio ruolo, oppure cercando di “domare” il bambino o di trincerarsi dietro una teoria psicopedagogica dà risultati apparenti: il bambino obbedisce, ma cova una profonda ostilità oppure sorge  improvvisamente un altro problema, cosa che inevitabilmente produrrà sentimenti di inadeguatezza e di incomprensione che determineranno interruzioni. Nel processo  insegnare – apprendere  si intrecciano i vissuti dell’insegnante e degli alunni, cioè ciascuno vede nell’altro “qualcosa” e questo qualcosa è storico, specifico, individuale e legato al rapporto, come si diceva prima, fra ciò che è accaduto in quel  momento, in quella situazione specifica, e il proprio mondo “rappresentazionale”, cioè  quella scenografia dettata dal modo in cui ciascuno di noi ha vissuto, ha  rappresentato e percepito  sé e gli altri nel corso della propria storia (questo anche quando  si insegna tecnica  o algebra). Se la classe  non sta attenta, se un ragazzo fa lo stupido, se non capisce, se c’è  qualcuno che sa già e lo esibisce: queste sono tutte situazioni che mettono in movimento sentimenti che rievocano nostri “pezzi” (quando capivamo o no, quando eravamo lodati o sgridati, etc., quando  non ci sentivamo amati o ascoltati).

Riprendiamo il discorso dei bambini che, apparentemente non hanno gli strumenti per conoscere o li hanno per così dire difettosi eppure apprendono; altri imparano in modo non compatibile con gli strumenti che hanno; altri ancora, pur avendo apparentemente tutti gli strumenti necessari, non apprendono.

Per capire meglio possiamo focalizzare l’attenzione sulla lettura.

Da alcuni modi di dire, che si riferiscono ai libri e a chi li legge, emerge un’indubbia relazione tra il leggere e il mangiare: un lettore avido; un libro indigesto; un libro pesante; divorare un libro. Sono modi di dire che indicano il collegamento tra il  prendere con gli occhi come se l’energia mentale impiegata nel leggere fosse in qualche modo un derivato o un sostituto di quella impiegata a soddisfare gli impulsi di tipo orale. Una conferma di ciò potrebbe derivare dalla contemporaneità con cui ad esempio ci si accende una sigaretta o si prende qualcosa da mangiare quando ci si accinge a leggere un buon libro. E’ poi indubbia la connessione della lettura con un altro fatto orale: il parlare. Ma parlare è espellere nel mondo, leggere è prendere dentro di sé i pensieri e le parole di altri e questo può procurare angoscia,  la cui maggiore o minore intensità e coloritura non può che avere a che fare con la modalità con cui sono avvenuti i primi tentativi di conoscenza. Mettere dentro di sé e guardare dentro le cose sono situazioni ansiogene, ma non si tratta solo di guardare, riconoscere e dare un nome: per poter leggere e scrivere è necessario riconoscere e tollerare il fatto che ci sono sequenze obbligate, che il tutto  ha più rilevanza delle parti e che alcune parti già conosciute debbono essere eliminate per mettere insieme una nuova conoscenza.

Le operazioni mentali effettuate nell’apprendimento della lettura ripetono, per certi versi, i primi tentativi di conoscenza del bambino e rielaborano in modo attuale i suoi  contenuti mentali. Nel momento, cioè, in cui queste operazioni diventano possibili (guardare, riconoscere, sequenziare, etc.), il bambino acquista la capacità di guardare dentro di sé e quindi di poter controllare cognitivamente contenuti intrapsichici fino ad allora confusi e quindi ansiogeni. Apprendere a leggere e a scrivere è quindi un modo per mettere in ordine e non è casuale che ciò avvenga all’inizio della latenza, in un momento della propria storia evolutiva nel quale il bambino cerca di mettere una certa distanza tra i contenuti emotivi e la loro rappresentazione simbolica, nel momento, cioè, in cui avviene la famosa decantazione di cui si parlava prima.

 Un bambino che non può mettere ordine nella sua realtà intrapsichica, che vede confermate nelle parole scritte la sua angoscia (e la sua colpa) di aver guardato troppo, di aver separato cose che dovevano stare insieme, di averle danneggiate, è un bambino che resta in uno stato di confusione della sua realtà interna e che perciò non può rivolgersi a conoscere la realtà esterna.

La scuola si colloca in una fase in cui l’Io e gli altri, il mondo esterno e gli oggetti sono separati e si pongono fra di loro in una relazione dinamica, cosa che rappresenta un passaggio importante nel cammino verso l’indipendenza e che segna lo spostamento da un apprendimento basato sulle identificazioni imitative ad uno basato su quelle proiettive e introiettive.

La scuola rappresenta un passaggio molto importante nel cammino verso l’indipendenza. Andare a scuola significa uscire dall’ambiente familiare conosciuto per accedere ad un altro nuovo e sconosciuto, ma creato appositamente per lui. La scuola contribuisce alla differenziazione e fa sì che il bambino prenda coscienza di se stesso. Ed è proprio il prendere coscienza di sé uno dei primi apprendimenti ed è essenziale per poter accedere ai successivi. Perché esista apprendimento bisogna che ci sia differenziazione e l’entrata nella scuola rappresenta un passo importante in questa direzione fra lui, gli altri bambini, la casa, la scuola, la famiglia e la classe, i genitori, la maestra. L’insegnante, come prima i genitori, mette a disposizione uno  spazio in cui avviene il libero scambio di contatti fra il bambino e gli altri, uno spazio mentale esterno ed interno.

Anche il gruppo di cui parliamo è uno spazio interno ed esterno. Ogni bambino porta nel gruppo se stesso, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue doti e le sue mancanze, il suo temperamento e il suo carattere, i suoi sentimenti e i suoi conflitti, i suoi desideri e le sue paure. Nei rapporti con i compagni egli trova inevitabilmente, come in un gioco con gli specchi, chi gli somiglia e chi no, chi rappresenta un amico e chi un nemico, chi un uguale con cui affiatarsi e chi un diverso con cui confrontarsi.

Non sempre  il comportamento nel gruppo corrisponde a quello che ci descrivono gli insegnanti: il bambino ha modi diversi di agire e di muoversi in ambienti che hanno caratteristiche e dinamiche diverse e questa è una risorsa da cogliere!

Stiamo parlando dell’età in cui i bambini giocano a chi è il più bravo, in cui mettono in risalto le proprie capacità fisiche ma anche le proprie idee, la popolarità e la capacità. In questa corsa ad ostacoli verso l’affermazione di sé, non tutti corrono, c’è chi per paura corre nella direzione opposta, chi si ferma al primo ostacolo, chi sposta il confronto sul piano dell’aggressività. Per questi bambini il gruppo può essere uno spazio dove ripetere lo stesso copione, ma può essere anche uno spazio di confronto ad armi pari, con qualcuno uguale a lui e non con giganti invincibili e giudicanti.

Se il gruppo fornisce oltre che uno spazio fisico, anche uno spazio mentale chi ci lavora, come si può ben intuire, si “compromette”, mette in gioco se stesso, è disponibile, quindi, a prendere dentro di sé e a pensare all’altro.

E’ quello che fa o dovrebbe fare l’insegnante, è quello che fa, con connotazioni qualitative e quantitative diverse, la madre “che pensa a suo figlio”: è preoccupata, vigile e attenta a.

La vostra funzione può essere di ponte fra la scuola e la famiglia, fra una situazione connotata dall’affettività e una connotata dall’operatività.

Il gruppo può conservare qualche somiglianza in più con la casa o con la sezione di scuola materna, rispetto alla classe di scuola elementare, per rendere più leggero il passaggio a quell’operatività necessaria all’apprendimento scolastico, oppure dare un contenimento più tollerante a chi non è ancora stato abituato a fare fatica o, ancora,  essere un contenitore, un “agente rassicuratore” dove si può provare meno paura,  meno assillo del risultato; può essere, infine, “un’officina” dove qualcuno è disponibile a cercare fino a trovare il giusto pezzo di ricambio.

 Mi preme dire e sottolineare però che nemmeno nei workshop si fanno miracoli!

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