Storia delle istituzioni psichiatriche

di Leonardo Angelini e Deliana Bertani

Spesso noi siamo portati, nel linguaggio “da operatori” che usiamo tutti i giorni, a contrapporre due parole: “territorio” e “istituzione”, a vedere queste due parole come indici di due diversi luoghi, di due diversi modi di lavorare con i pazienti, di due diversi fini che è possibile raggiungere lavorando con essi.

Diversità e contrapposizione di luoghi, di modi, di obiettivi per definire la nostra storia di operatori territoriali (“re della strada, re della foresta”); storia che si contrappone all’altra e più antica storia, quella di coloro che lavoravano e, in parte, ancora lavorano nelle istituzioni.

Ma dietro ogni storia vi è un bisogno di storia, e dietro ogni bisogno di storia vi è come un’ ansia di descriversi, di “raccontarsi”, e quindi di definirsi, cioè di definire la propria identità.

Ma questa ansia, questo bisogno di definirsi fatalmente finisce col porre in piena luce, con l’enfatizzare, con l’idealizzare ogni componente, ogni cosa che attiene all’eroe; diciamo così, ed a marginalizzare, a sminuire, a denigrare (a tingere di nero) ogni cosa che attiene all’antagonista, all’altro. Ed anche nel nostro caso, a ben vedere, vi è un’ansia, che è ansia di definire meglio i nostri incerti confini, vi è una tendenza a “raccontarsi” in termini di idealizzazione (l’operator territoriale, re della strada, re della foresta); vi è – o almeno vi è stato fino a poco tempo fa – la tendenza a “tingere di nero”, a denigrare, a contrapporsi in termini manichei agli operatori delle istituzioni.

Perciò la prima cosa che occorre fare, se vogliamo delineare la trama di una nuova storia che parta dalla comprensione anche degli altri, è quella di superare ogni manicheismo e di guardare alle istituzioni a partire da un punto che ci permetta una visione prospettica più ampia.

Il territorio come istituzione

Soprattutto agli inizi degli anni ’70, quando nacquero a Reggio E. i servizi territoriali di tipo psichiatrico, era facile ascoltare operatori del territorio che vivevano il proprio lavoro quasi come una missione, che nasceva da un mandato di carattere ideologico, politico, che l’operatore aveva fatto proprio e che lo portava a lottare contro “le istituzioni”.

La “lotta anti-istituzionale” era l’elemento che in quegli anni permetteva l’aggregarsi, e quindi il riconoscersi in termini di identità collettiva, di un vasto numero di operatori non solo della psichiatria, ma anche della sanità, dell’educazione, etc.

La natura del mandato che questi operatori sentivano di avere dentro di sé era tale, però da spingerli a sottovalutare e spesso a “non vedere” affatto quelli che erano i vincoli di natura istituzionale cui loro stessi erano sottoposti: in quanto lavoratori di un servizio pubblico e quindi funzionari di organismi decentrati dello stato, ma anche in quanto tecnici oscillanti sempre fra almeno tre esigenze di fedeltà che non sempre vanno d’accordo fra di loro:

I) quella di cui abbiamo appena detto nei confronti di leggi e regolamenti dello stato (si pensi alle leggi sui ricoveri coatti);

2) quella verso la propria “tekne”, cioè verso il corpus istituito della propria disciplina (si pensi alla nascita di “psichiatria democratica”, di “medicina democratica”, etc.);

3) ed infine quella nei confronti dei propri pazienti (l’alleanza con…).

Per cui paradossalmente proprio coloro che con le loro lotte e col loro operato quotidiano ponevano le premesse per un superamento delle vecchie leggi manicomiali, per la messa in crisi delle diverse discipline e delle diverse professionalità così come di erano fino ad allora definite, per la nascita di nuove professionalità (e quella dell’educatore è una di queste) più adeguate “al territorio”, proprio costoro finivano col “non vedere” dentro se stessi, nel servizio in cui operavano l’esistenza di una dimensione istituzionale, che pure li condizionava sia come lavoratori, sia come tecnici.

Sappiamo oggi che era la natura ambigua del mandato che avevano ricevuto che li spingeva, che li costringeva a questa cecità. Basti considerare la natura dei filtri secondo i quali avveniva la selezione per l’ingresso nei servizi del territorio per rendersene conto: ciò che veniva “testato” era il grado di identificazione possibile con il lavoro visto come missione. Ciò che ne conseguiva era la definizione del proprio luogo di lavoro come una sorta di luogo franco in cui non potevano esistere le contraddizioni di cui sopra e dal quale si poteva partire, un po’ tecnici già emendati dai vincoli della propria disciplina, molto “politici” ambiguamente investiti di questo ruolo dagli amministratori, per una lotta senza quartiere contro le istituzioni.

L’esigenza di definire in maniera tecnicamente più chiara obiettivi, ruoli, priorità, programmi, dapprima, la nascita delle USL, con il superamento a livello istituzionale della contrapposizione fra territorio e ospedale, tra CIM e manicomio, in una seconda fase, sono stati nello stesso tempo produttori e prodotto della stessa svolta[1] .

Qui ci preme rilevare che in questo processo lentamente si stemperano le tinte forti della posizione manichea, in base alla quale le cose sono bianche o sono nere.

La “denigrazione”, l’oscurare – cioè – la fama di chi da me è considerato avversario, questo movimento “settario” si svela, piano piano, più che altro come un segnale di insicurezza, come una manifestazione reattiva propria di identità deboli, nuove, precarie, che non riescono ancora ad accettare la propria debolezza, la propria precarietà, la propria novità come dei valori da coltivare.

Cosicché la debolezza deve essere celata dietro una corazza di forza ostentata e denigrante, che finisce col non permettere una piena valorizzazione neanche di ciò che proprio in base alla debolezza, alla precarietà, alla novità era stato possibile raggiungere: il “diverso da me” fino ad allora racchiuso nei gironi dell’esclusione.

Ecco, se noi vogliamo fare una storia delle istituzioni oggi dobbiamo abbandonare la posizione manichea nei confronti degli “altri” operatori, delle “altre” “istituzioni”. Altrimenti ci condanniamo a ripetere l’errore di non vedere fino in fondo tutte le potenzialità che c’erano e ci sono tuttora nella nostra posizione sperimentale, nuova, debole.

Cerchiamo di vedere ora con questi occhi alla storia, remota e non, delle istituzioni.

 

Dalla “ecclesia” medievale alla nascita delle istituzioni promiscue.

“C’erano una volta le istituzioni promiscue”, verrebbe da dire, come inizio di questa storia. Ed in effetti mai come in questa storia l’uso dell’imperfetto è appropriato.

Come ognun sa l’imperfetto è quel tempo che designa un qualcosa che c’era e che potrebbe ancora esserci, che lascia in sospeso la possibilità che una cosa ci sia o non ci sia ancora. Ebbene le istituzioni promiscue ci sono ancora, ed anzi in quest’ultimo periodo stanno rinascendo – come arabe fenici – dalle loro ceneri.

Ci fu un periodo però in cui le istituzioni non esistevano.

Nel Medio Evo infatti non vi era bisogno di istituzioni.

Il “diverso da me” veniva trattato secondo dei parametri che partivano dalla constatazione delle sue “stigmate” e dalla loro interpretazione che inviava (proprio come oggi fanno le diagnosi) a diversi destini: alcuni di soppressione, altri in luoghi di segregazione che già somigliano alle istituzioni promiscue, altri di accettazione all’interno della comunità, con pesanti ruolizzazioni connesse sempre alla forza simbolica che ogni “stigma” evoca ai contemporanei.

Dobbiamo stare attenti a non considerare questo periodo come una sorta di età dell’oro in cui la diversità, per il fatto di non essere istituzionalizzata, veniva accettata.

Per comprendere quel che accadeva utili sono il testo della Ristich De Groote e soprattutto “La storia della follia” di M.Foucault[2] .

In questa sede basti dire, con Foucault, quanto segue:

– il problema fondamentale è il tipo di discorso, e cioè di interpretazione delle stigmate, che viene fatto in quel periodo;

– a partire dal riconoscimento di tale discorso come discorso inscritto in una interpretazione religiosa dei fenomeni è possibile riconoscere i perché dei destini di soppressione o di “accettazione ruolizzata” dei diversi nella comunità (che, non dimentichiamolo nel Medio Evo è una “ecclesia”);

– quando di pensa ad una “ecclesia”, e cioè alla comunità medievale, come dice Habermas, non possiamo pensare ad un rapporto individuo-comunità, individuo-gruppo così come oggi siamo abituati a fare, e cioè nei termini di due entità distinte[3]. Ma ad un rapporto con un gruppo che assorbe dentro di sé totalmente l’individuo, non permettendogli di emergere in termini distinti se non in casi eccezionali ( e sempre con gravi rischi per chi si pone in una posizione eccentrica);

– questa estrema rigidità (che, per intenderci, vale anche per figure come gli artisti: vedi il fatto che – soprattutto nell’Alto Medio Evo – le loro opere non sono “firmate”), questa rigidità per chi portava le stigmate della diversità era letale.

Ad un certo punto però qualcosa comincia lentamente a mutare: e sono i processi di secolarizzazione della società da una parte e di spinta verso la città dall’altra che influiscono, più di ogni altra cosa, nel favorire un mutamento di prospettiva nei confronti del “diverso da me”.

Emerge così un nuovo “discorso” sulla diversità, che non parte più da un “ecclesia”, nel senso che parte da un diverso e più dialettico rapporto individuo-gruppo, e soprattutto che nasce nel nuovo elettrico clima della città protocapitalistica.

Il fatto è che il laborioso clima che dalle botteghe artigiane, dai banchi in cui si comincia a trattare il denaro come merce, a poco a poco si diffonde per tutta la città protocapitalistica non può essere disturbato da chi per un verso o per l’altro non vuole o non può accettare le regole nuove che la società si va dando.

Cosicché l’anziano, il vagabondo, l’orfano, il folle, l’handicappato, insieme al ladro, al criminale devono essere segregati per raggiungere una igiene della città.

Il discorso sulla diversità così (cioè per questa strada) muta rispetto a quello medievale: si laicizza, anzi diviene un discorso di polizia.

Ma questa esigenza di igiene non implica una discriminazione all’interno della diversità: tutti i diversi, all’interno di questo discorso sono accomunati dal fatto che sono un pugno in un occhio alla laboriosità della borghesia cittadina; e perciò vanno sottratti alla vista di coloro che di quel clima sono i protagonisti, in quel clima pensano di dispiegare le loro potenzialità.

Nasce così la Salpetrière, che nello stesso tempo è manicomio, ricovero per anziani, orfanatrofio, etc.; e che possiamo prendere per emblema dell’istituzione promiscua.

Siamo all’inizio del ‘600, a Parigi, ma potremmo essere a Reggio E., o in qualsiasi altra parte d’Europa nei due secoli e passa che trascorreranno prima che questa istituzione possa essere affiancata (mai – come vedremo meglio dopo – sostituita del tutto) dalle istituzioni totali. ed anzi possiamo forse dire che lo stesso discorso religioso medievale sulla diversità si può presentare ancora a noi oggi sotto forma di discorso magico, che – come ha mostrato bene De Martino – non è affatto circoscritto all’Altra Europa, all’Europa mediterranea, ma continua ad esistere anche nel cuore dell’Europa continentale[4].

In questo luogo, nell’istituzione promiscua, non vi possono essere fini di cura così come noi oggi siamo portati a pensare quando parliamo di cura.

Il fine è quello dell’igiene della città, ma ciò non toglie che vi sia in questi luoghi una “cura” degli ospiti; solo che questa “cura”, data la promiscuità, non può essere una cura discriminata.

Non esistono ancora i saperi discriminati in base ai quali si fonderanno i discorsi, le discipline (intese come saperi cristallizzati in procedure, in tecniche) che saranno tipiche dell’età che seguirà. Perciò la cura in questa fase è una preoccupazione indistinta.

Per rendersene conto più che compiere un lavoro di “archeologia” – che sarebbe difficile e si baserebbe su reperti “morti” – conviene prendere una istituzione promiscua ancora operante e viva e vedere che cosa lì dentro avviene: se – per esempio – prendiamo le Case di Carità vediamo che in esse vi è una cura, anzi vi è una cura molto sollecita, nei confronti degli ospiti, ma, in base alla loro promiscuità, non vi può essere che una cura di tipo “assistenziale”.

Un rispetto della persona, ma un rispetto di un essere che si pone, si impone alla vista delle addette indistintamente come persona; ed a una indistinzione nata dalla promiscuità corrisponde una distribuzione indiscriminata di cure.

Istituzioni totali e nascita delle discipline

Ma la città protocapitalistica è una fucina all’interno della quale anche le idee, così come le cose, sono continuamente rimescolate, ri-dette.

E’ il pensiero razionale che permette questo tipo di rimescolamento e che nello stesso tempo fa da stampo quando ad un certo punto queste idee cominciano a solidificarsi dapprima nella speculazione filosofica, successivamente nel pensiero scientifico, infine nelle varie discipline: medicina, psichiatria, psicologia e pedagogia (intese non più come branche della filosofia, ma come scienze) etc.

Il discorso a questo punto muta ancora una volta poiché mutano ancora tutte le componenti che si pongono di fronte ai diversi.

Non è più l’ecclesia, e cioè la comunità medievale cementata e riempita di senso dalla Chiesa, a proporre una interpretazione della fenomenologia della diversità, ma non è più neanche (o solo) lo organismo ordinatore e “poliziesco” della città protocapitalistica a proporsi un simile compito.

Al discorso religioso e a quello della “igiene della città” si sostituisce ora un discorso che nasce con le varie discipline e che vede in una posizione interpretativa i nuovi soggetti che con le nuove discipline nascono e si istituiscono: i tecnici.

Di fronte alle stesse stigmate, che nel Medioevo erano state lette in termini di ruolizzazione o di soppressione, che nella città protocapitalistica avevano condotto alla segregazione in istituzioni promiscue, ora le nuove entità interpretanti cominciano a distinguere: questo è di mia competenza e questo no.

Vengono spiegate quali sono le ragioni ed i limiti delle varie discipline. Si definisce così una vera e propria mappa in base alla quale ogni istituzione si pone, descrive i propri confini, e si legittima grazie ad una propria affiliazione ad una o più discipline scientifiche.

Nascono così il manicomio, l’ospedale, l’orfanotrofio, la scuola materna, etc..

Contemporaneamente o successivamente all’interno di ciascuno di questi confini nascono delle specializzazioni che definiscono delle mappe più dettagliate in cui i saperi si frantumano, le responsabilità si liquefano, mentre nel contempo le tecniche diventano sempre più raffinate ed efficienti.

Basta andare in un nostro ospedale per avere una visione precisa di questi dettagli.

Cosicché, prendendo come esempio di alterità la donna, se nel Medioevo essa, proprio per la sua natura “altra” ed angosciante, poteva facilmente trasformarsi in strega agli occhi dell’ “ecclesia”, nella società protocapitalistica altrettanto facilmente diventa un’ospite delle istituzioni promiscue e dal discorso delle discipline viene riconvertita in un’ alienata da osservare in manicomio.

E se il discorso delle ecclesia si iscriveva in una interpretazione religiosa del mondo, se il discorso della città protocapitalistica in un esigenza di igiene, il discorso delle discipline nasce e si inscrive in un quadro interpretativo totalmente nuovo che è quello sperimentale, inaugurato da Galileo e ben presto utilizzato come strumento di lettura non solo delle leggi di natura, ma di ogni fenomeno che a tali leggi si pensa possa essere ricondotto, e quindi anche delle diversità (che intanto sono diventate un accidente che si declina al plurale).

Ma quando l’interpretazione si sposa con il metodo sperimentale avviene un fatto nuovo che merita la nostra attenzione perché le conseguenze insite in questo modo di pensare pesano ancora oggi nel nostro modo di lavorare con i diversi.

Accade cioè che l’interpretazione si camuffi dietro una patina di oggettività in base alla quale le osservazioni dell’interpretante diventano leggi ed, in base a queste leggi, si definisce un rapporto con il diverso di tipo scientifico dove si intende per scienza la modalità di conoscenza tipica della sperimentazione galileiana, non considerando che questa è solo una delle modalità di conoscenza che l’uomo possiede.

Da questa riduzione della scienza (che, non dimentichiamolo significa “conoscenza”) alla scienza sperimentale, e cioè a quel tipo di conoscenza verificabile sperimentalmente, deriva un rapporto oggettivante con il fenomeno da osservare.

E’ quando questa alterità è un essere umano l’oggettivazione comporta una duplice riduzione: dell’altro ad oggetto, ma anche nell’osservatore a strumento freddo, direi meccanico, di registrazione, di catalogazione (le diagnosi, per es.) di distribuzione nelle varie istituzioni “all’uopo” formatesi.

Ed anche la cura si definisce come un insieme di procedure standardizzate che sono propinate in base alle standardizzazioni fatte ed all’aura che il tecnico ha per il fatto di appartenere alla comunità scientifica (è grazie a questo tipo di sperimentazione ed a quest’aura che in passato è stato possibile propinare ad esempio l’elettrochoc ai pazienti psichiatrici).

I meccanismi in base ai quali nelle istituzioni totali la quotidianità poi si definisce in termini di una più pesante oggettivazione operata dallo “staff” sull'”internato” li abbiamo riassunti nel capitolo precedente.

Resta da comprendere ora quali sono le ragioni storiche che hanno fatto nascere il discorso delle discipline.

La risposta la possiamo intravedere se ci guardiamo intorno.

Cosa vediamo noi oggi e cosa cominciavano a vedere i nostri progenitori a partire dall’epoca della rivoluzione industriale?  che in maniera via via crescente, tutti i campi del sapere quotidiano sono stati ridisegnati dal sapere scientifico e dalle varie tecnologie che di esso sono figlie.

La rivoluzione industriale e la tecnicizzazione di ogni aspetto della vita e del mondo non poteva non riflettersi sul modo di vedere i diversi, sulla legittimazione di nuove figure tecniche, preparate a prendersi cura di loro, sulla definizione di nuovi luoghi in cui tale osservazione, tale cura, dovevano svolgersi.

 

Nascita delle nuove professioni: territorio ed istituzioni professionali

Ad un certo punto, però, il discorso delle discipline comincia ad andare in crisi.

E ciò avviene non per il superamento di un modo di pensare figlio della civiltà tecnologica, che anzi negli ultimi decenni tende ad espandersi a dismisura, ma per due ordini di motivi.

a) Da una parte per un moto soggettivo di rigetto verso i discorsi e le procedure tipiche delle istituzioni totali.

Tale atteggiamento nasce a livello di massa qui in Italia negli anni che precedono e seguono il ’68 e trae la sua origine in un complesso di fenomeni politico-sociali che determinano fra l’altro l’emergere di nuovi obiettivi, nuovi contenuti, nuovi metodi nel modo di porsi nei confronti dei diversi.

A dir la verità però una nuova entità interpretante, e cioè un discorso nuovo nei confronti della diversità, critico nei confronti dei sistemi di cura delle istituzioni totali e, più in generale, dello scientismo oggettivante era nato ed aveva cominciato a svilupparsi ben prima del ’68.

Si può dire infatti che, dopo l’era del capitalismo trionfante, e delle sue forme di pensiero e di “lettura” del mondo, emergono dalle contraddizioni e dai punti di crisi che accompagnano tutto lo sviluppo successivo delle società industriali, nuovi modi di pensare, di “leggere”, di interpretare i fenomeni sociali che, anche di fronte al problema dei diversi, dicono delle cose nuove, che lieviteranno in maniera più o meno evidente, per tutto il nostro secolo.

A livello filosofico è la via che parte da Marx e Nietzsche per giungere alla fenomenologia ed, oggi alle varie tendenze, figlie della fenomenologia e dell’esistenzialismo, a proporre in generale, una visione dell’uomo tendente ad un risarcimento per l’uomo stesso di tutto ciò che è umano e che la società tecnologica tende ad alienare ed, in particolare, una visione della diversità tendente a vedere nel “diverso da me” parti che invece mi appartengono, al di là del bene e del male, e che io posso ritrovare se mi pongo in una posizione identificatoria nei confronti dell’altro, e non di rifiuto.

Sono i valori universalizzanti dell’internazionalismo, dell’incontro con l’altro e con me stesso al di là, appunto, del bene e del male, della coniugazione fra identico e autentico, della scoperta della forza del pensiero debole che mi permette di vedere e di comprendere l’altro da me per linguaggio, nazione, etnia, sesso, etc..

A livello scientifico è il pensiero di studiosi e ricercatori come Freud per la psichiatria, Maria Montessori per la pedagogia, Durkheim, Max Weber etc. per la sociologia, per rimanere negli ambiti scientifici che ci sono più contigui, a mettere in grande crisi il discorso delle discipline.

Riprendendo l’esempio fatto prima della donna come uno degli emblemi dell’alterità, la strega medievale, diventata poi ospite dell’istituzione promiscua e successivamente alienata nell’istituzione totale, ora appare agli occhi della nuova comunità interpretante come un soggetto che esprime, attraverso il proprio disagio, attraverso la propria storia, attraverso la propria fatica di vivere, una serie di conflitti dovuti ai modelli si socializzazione cui ha dovuto adattarsi, che l’hanno espropriata delle possibilità di espressione di una parte della sua umanità.

E, come era accaduto precedentemente, a nuovi discorsi elaborati, in un nuovo clima sociale, da nuove comunità interpretanti, corrispondono non nuovi bisogni, ma nuove modalità di soddisfacimento di tali bisogni.

Alle modalità ruolizzanti o rimuoventi dell’ecclesia medievale, e quelle segreganti delle città protocapitalistiche, a quelle oggettivanti tipiche delle vecchie professioni nate nel e col discorso delle discipline, questa nuova comunità interpretante oppone modalità di soddisfacimento che sono: la psicoterapia, la riabilitazione, “il territorio”, le strutture intermedie, etc..

Tutti luoghi in cui, il diverso da me possa essere incontrato come soggetto vivo con cui entrare in un rapporto caldo in cui noi stessi siamo coinvolti in quanto compartecipi dei problemi che l’altro pone.

Napolitani definisce questo tipo di incontri come incontri di frontiera e i nuovi professionisti che si pongono in questa prospettiva come operatori di frontiera[5]: è sulla frontiera che divide e delimita ciò che è già noto da ciò che mi è ignoto che è possibile scoprire che l’altro, “il barbaro” non è che una parte di me. E’ possibile però se l’operatore di frontiera non opera come lo staff fa con l’internato, cioè oggettivando, ributtando indietro l’altro nei territori oscuri dai quali è venuto, ma a partire da un rapporto di identificazione operativa[6] con lui.

Si può leggere quindi la nascita e tutti i processi di aggregazione che avvengono in questa nuova comunità interpretante come la storia di un processo che ancora è in pieno svolgimento in cui vari operatori di frontiera definiscono nuove professionalità (psicoterapeuta, psicologo, educatore, logoterapista, etc.) che vanno sperimentando (non più nel senso galileiano del termine) sempre nuove modalità di incontro con l’altro nei vari luoghi di frontiera.

E tali luoghi di frontiera possono essere, a seconda delle esigenze che definiscono i vari setting: il territorio, e cioè lo studio dell’analista, l’ambulatorio, il domicilio del paziente; le istituzioni professionali e cioè, la scuola, l’asilo nido, ma anche la struttura intermedia, il Centro Appoggio, il laboratorio protetto.

Ciò che distingue questi nuovi luoghi dalle istituzioni totali, non è, quindi, il tasso di territorialità: quel “possono essere” va letto infatti come una possibilità che può essere data o meno a seconda di come si pone l’operatore di frontiera, se come un doganiere che non fa passare nulla dell” “altro da me” o come un soggetto disposto a rischiare sempre l’incontro anche con la psicosi, con il vuoto, con l’angoscia, con la morte, con l’inguaribilità. Per cui il doganiere pavido che è in noi può emergere ovunque, nel Centro Appoggio così come nell’ambulatorio dello psicoanalista.

Questi luoghi, quindi, da una parte sono il “territorio”, dall’altra le nuove istituzioni, che propongo di chiamare “istituzioni professionali”.

I discorsi che provengono da questi luoghi, se hanno come retroterra questo tipo di critica all’esistente, li chiameremo “discorsi delle nuove professioni”.

b) Ma a questo moto soggettivo di critica all’esistente, che in Italia nasce a livello di massa nel 1968, ed ancor prima, fin dall’inizio secolo, si sviluppa qua e là in Europa e negli USA a livello filosofico, scientifico e tecnico, (con le scansioni che più su abbiamo tentato di riassumere), corrisponde sempre una tendenza, a tutti e tre i livelli, a spostare la nuova comunità interpretante su di un discorso che è contiguo a quello che ho denominato delle “nuove professioni”, ma che, diversamente da questo, non ha alcun contenuto critico nei confronti dell’esistente, ma anzi risulta funzionale ad esso e portatore di livelli moderni di alienazione e di reificazione.

Foucault definisce questo discorso come “discorso della sessualità”[7] e nel fare questo pensa agli stessi soggetti nuovi, alle stesse “nuove professioni” di cui si parlava prima, solo che in questo caso il doganiere pavido che è in noi emerge in maniera subdola ed è al servizio non dell’incontro sulla frontiera con l’altro da me, ma delle nuove esigenze della società tardo-capitalistica.

Afferma Foucault che, mentre la vecchia società del capitalismo trionfante aveva bisogno di produrre e riprodurre forza lavoro fungibile, cioè utilizzabile acriticamente nella produzione di merci, la nuova società non vede più esclusi dai consumi le classi subalterne, che anzi sono oggi l’oggetto privilegiato sul quale si riversano sempre più le attenzioni delle allettanti sirene che invitano al consumo.

Sono state le politiche keinesiane che i vari stati metropolitani hanno messo in atto a partire dalla crisi del ’29 a indurre un rapporto così nuovo di questo immenso “mercato” con i beni di consumo che prima, come si sa, erano appannaggio quasi esclusivo di poche classi sociali.

Ma per forgiare un uomo che consumi, oltre che produrre, è necessario che un discorso passi e si diffonda, un discorso che inevitabilmente implica anche un nuovo modo di vedere la diversità.

Ora infatti diverso non è più chi turba (con la sua sola presenza scandalosa, a volte) il clima operoso della produzione, ma colui che non si integra, che non si adatta ad una presenza acritica nel circuito della produzione e del consumo.

Ecco la ragione che spinge verso una “politica del corpo”, afferma Foucault, “che non richieda più l’eliminazione del sesso o la sua limitazione ad un ruolo riproduttivo, ma anzi la loro “colonizzazione nei circuiti controllati dell’economia: una desublimazione arcidepressiva, come si dice”[8].

In questa prospettiva la nuova psichiatria, la psicoterapia, le psicoanalisi e quindi sia il territorio sia le istituzioni professionali, le varie tecniche che nascono con le nuove professioni, rischiano di svolgere un ruolo pedagogico volto ad educare il soggetto a diventare, alienandosi da se stesso, un accumulo di oggetti di consumo che occorre possedere per darsi senso.

E’ questo che Foucault chiama “discorso della sessualità” intendendo con questo termine sottolineare quell’invasione da parte dei nuovi tecnici delle sfere più intime del soggetto per definire un’etica eteronoma, un insieme di precetti, di aspettative, di “visioni di sé”, che è cristallizzato nei dispositivi della nuova psichiatria, della psicoanalisi, etc. e che è funzionale ad una desublimazione repressiva[9] cioè ad una disposizione nuova non più alla sublimazione ed all’etica del lavoro, ma al consumo ed al darsi consistenza solo attraverso gli oggetti che si possiedono.

In quest’ottica il discorso “moderno” sui diversi è molto più vicino di quanto si possa a prima vista pensare al più generale “discorso della sessualità”.

Se infatti pensiamo un attimo al peso che, per esempio, in età evolutiva vanno assumendo approcci alle diversità, ed in generale al bambino, basati su tests, curricoli, prove-standard, non possiamo fare a meno di notare che tali stili di rapporto si rivelano estremamente funzionali ad una “visione di sé” da parte del soggetto (e di chi lo manipola in questo modo) che è il risultato che viene dalla sommatoria di tutte queste prove.

Ma subito dopo “non v’è chi non veda” le analogie profonde che ci sono tra questo modo di costruire una “visione di sé” e quello che più in generale funziona nella società dei consumi appunto come risultato di una sommatoria di oggetti da possedere, di performance da richiedere al proprio corpo-psiche oggettivato[10].

La stessa cosa si può dire anche del significato “formativo”, educativo che può essere assunto dalla psicoanalisi, dalla nuova psichiatria, etc..

Per cui, concludendo, il territorio e le nuove istituzioni professionali possono essere portatori di un nuovo discorso critico in cui prevale il doganiere coraggioso che osa contaminarsi sulla frontiera con il diverso, il barbaro, il portatore di un nuovo linguaggio, di una nuova storia che mi può arricchire.

Oppure possono essere anche le istanze colonizzatrici che lottano anch’esse contro il vecchio discorso delle discipline, ma per sostituire a quel discorso, ormai disfunzionale rispetto alle esigenze “del consumo”, un nuovo discorso colonizzante volto a cucire addosso a tutti, uomini e barbari, uguali e diversi, la camicia di Nesso che il doganiere infido pretende sia indossata da tutti coloro che vogliano abitare la metropoli consumistica.


[1] Per una analisi più particolareggiata di ciò che ne è derivato – almeno a Reggio E. – sul piano delle singole identità professionali, delle vicissitudini della diagnosi e, soprattutto, del rapporto con “il diverso da me” vedi: L. Angelini, “Tappe di una storia recente”, in Riv. Sper. di Freniatria, Vol. CXI, 1987.

[2] M. Ristich De Groote, 1973, “La follia attraverso i secoli”, Tattilo, Roma.; M. Foucault 1976, “Storia della follia nell’età classica”, Laterza, Bari.

[3] J. Habermas, 1981, “La crisi della razionalità nel capitalismo maturo”, Laterza, Bari.

[4] ) E. De Martino, 1980, “Furore, simbolo, valore”, Feltrinelli, Milano, cfr. specialmente le pagg. 233/242.

 

[5] D. Napolitani, “La struttura intermedia nel panorama psichiatrico”, in “Psicoterapia e scienze umane”, N° 4, 1986, pagg. 74/86.

[6] ) G.P.Lai, 1974, “Gruppi di apprendimento”, Boringhieri, Torino.

[7] M.Foucault, 1978, “La volontà di sapere”, Feltrinelli, Milano.

 

[8] M.Foucault, 1978, op. cit., pag. 102.

[9] H. Marcuse, “La tolleranza repressiva”, in: AA.VV.”Critica della tolleranza”, 1968, Einaudi, Torino.

[10] C. Lasch, 1981, “La cultura del narcisismo”, Bompiani, Milano.

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